Anche nel 2025 si vota, ma un po' meno rispetto agli altri anni, almeno se ci si concentra sulle elezioni amministrative. Si è già detto che, in base all'orientamento del Ministero dell'interno, i comuni che hanno votato nell'autunno del 2020 (e del 2021) per evitare i periodi ritenuti più rischiosi per la pandemia Covid-19 dovranno tornare alle urne nella primavera del 2026 (e del 2027): quest'anno, dunque, rinnoveranno le loro amministrazioni solo quei comuni che sono rimasti senza sindaco per motivi "diversi dalla scadenza del mandato", cioè dimissioni, impedimento permanente, rimozione, decadenza (per sfiducia o altre ragioni) o - purtroppo - decesso del primo cittadino.
Dei 117 comuni chiamati al voto nelle regioni a statuto ordinario, il più rilevante è sicuramente Genova (dopo l'elezione di Marco Bucci alla presidenza della giunta della Liguria), cui si aggiungono alcuni capoluoghi di provincia (Ravenna, Taranto, Matera). A conti fatti, però, il teatro delle elezioni "sotto i mille", quindi nei comuni più piccoli, risulta essere il più interessante, soprattutto per l'accentuarsi - imprevisto, ma nemmeno troppo - di alcuni fenomeni già incontrati in passato e raccontati puntualmente in questo sito, ma quest'anno impossibili da ignorare.
Il quadro da indagare nella microItalia che vota, in effetti, quest'anno è decisamente ristretto: nel 2025 nelle regioni a statuto ordinario sono solo 12 i comuni con meno di mille abitanti chiamati al voto. In queste località nel 2021 gli abitanti risultavano essere in totale 5758 (e gli elettori, che comprendono anche gli iscritti all'Anagrafe degli italiani residenti all'estero, sono 9633), ma sono state presentate addirittura 107 liste, tutte rigorosamente senza bisogno di raccogliere firme (come disposto dalla legge). Praticamente una media di 9 liste a comune, ma in alcuni si è decisamente esagerato, specialmente a Bisegna - piccolissimo centro aquilano con 207 abitanti nel 2021, 2012 abitanti alla fine del 2021 e 340 elettori - con 25 liste presentate e (in assenza di irregolarità rilevate) tutte pronte a finire sulla scheda elettorale. Una concentrazione di candidature tra l'incredibile e l'assurdo, lì e altrove, in grado di produrre situazioni che rasentano il ridicolo e che - salvo probabilmente qualche eccezione - poco o nulla hanno a che fare, non solo con la normale vita amministrativa, ma anche con la politica in genere.
Nella maggior parte dei comuni da considerare, infatti, oltre alle liste locali e a qualche candidatura di piccoli movimenti politici, si registra la presenza di manciate di liste cui sembra impossibile - pur con tutte le migliori intenzioni e la più umana indulgenza - attribuire uno scopo diverso rispetto all'ottenimento di licenze elettorali: quel fenomeno si registra da diversi anni, sopratutto in alcuni regioni del Centro-Sud, ma ormai ha raggiunto un dimensione di carattere nazionale, destando anche l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa.
Di solito l'analisi delle elezioni "sotto i mille" su questo sito viene fatta a voto concluso, ma questa volta il fenomeno è talmente macroscopico da richiedere un'analisi anticipata. In questo articolo si porranno le basi della ricerca, utili per preparare chi vorrà leggere a un viaggetto in 9 tappe (delle 12 possibili); dopo il voto, ovviamente, sarà utile tirare qualche somma, a costo di rimanere inchiodati allo 0 nei casi di liste "usa e getta" (o interpretate come tali da elettrici ed elettori).
Numeri che parlano (anzi, che gridano)
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Le elezioni "sotto i mille" nel 2025 (Dati: Ministero dell'interno) |
Vale la pena iniziare dando i numeri, anzi, alcuni numeri ben precisi. Si diceva che i comuni con meno di mille abitanti chiamati al voto nel 2025 sono soltanto 12. Di questi, ben 9 - dunque il 75% - vedranno finire sulle schede un numero abnorme di liste, soprattutto rispetto alla loro storia elettorale dal 1993, cioè a partire dall'anno in cui la legge n. 81/1993 - la stessa che ha introdotto l'elezione diretta del sindaco - non ha più richiesto la raccolta di firme nei comuni "sotto i mille". I casi di San Nicolò di Comelico, nel bellunese (una sola lista) e dei due microcomuni calabresi di Jacurso (Cz) e Spadola (VV), entrambi con due sole liste, sembrano anzi quasi eccezioni al fenomeno imperante, al punto che verrebbe da chiedersi perché quei luoghi siano stati "risparmiati".
Nei 9 comuni da considerare con attenzione, dal 1993 in avanti si sono quasi sempre presentate una, due o tre liste. Soltanto ad Orero, in provincia di Genova, nel 2011 si sono presentate 5 liste, lo stesso numero di formazioni che elettrici ed elettori troveranno sulle loro schede il 25 e il 26 maggio prossimi; l'anomalia qui sembrerebbe limitata, ma il confronto con le due sole liste presentate nel 2021 e nel 2016 - insieme ad alcune delle formazioni presentate, già ampiamente citate negli articoli degli anni scorsi relativi ad altre zone d'Italia - non può far etichettare il caso come "normale". Negli altri 8 comuni da passare in rassegna, in compenso, il numero di liste è decisamente più elevato e non ci sono solo i record del tutto inediti di Bisegna (25 liste, come si è detto, quando in passato se n'erano sempre affrontate 2) o dei comuni campani di Senerchia (Av, 20 liste), Castelnuovo di Conza (Sa, 10 liste), Ispani (Sa, 7 liste) e Sant'Angelo a Fasanella (Sa, 11 liste); spiccano anche le 9 liste di Calvignano (Pv) e San Giacomo Vercellese, come pure le 6 di Malvicino (Al), vale a dire in zone in cui - al di là di varie liste "esterne" e di alcuni casi eclatanti, debitamente raccontati da chi scrive nel libro M'imbuco a Sambuco nel 2019 - non si erano mai registrate schede così affollate in comuni tanto piccoli.
Proprio questi numeri fanno capire che qualcosa di strano è accaduto e sta accadendo. E che, probabilmente, sta accadendo anche in luoghi in cui prima non si verificava perché molti dei comuni in cui determinate dinamiche erano già state sperimentate quest'anno non sono stati interessati dal voto (a partire da quelli del Molise, in passato vera "terra di meraviglie", ricca - suo malgrado - di casi incredibili).
Il cocktail normativo tossico (almeno meno nelle regioni ordinarie)
Alla base di quest'invasione c'è un cocktail normativo non intenzionale, ma che a lungo andare si è rivelato tossico (e, a giudicare dalla ripetizione di determinati nomi, drammaticamente irresistibile).
Il primo ingrediente, come si ricordava all'inizio, è costituito dalla presentazione delle liste senza la necessità di raccogliere le firme. Prima che venisse approvata la legge n. 81/1993, nei comuni con meno di 2000 abitanti occorreva raccogliere 10 firme; fin dal primo testo esaminato dall'aula di Montecitorio nella XI legislatura, però, si era già rinunciato a richiedere le sottoscrizioni "sotto i mille" (art. 3, comma 2 della legge n. 81/1993), partendo dalla proposta di legge presentata dalla Dc (primo firmatario Adriano Ciaffi, allora presidente della commissione Affari costituzinali) e non si registrarono quasi proposte alternative sul punto (mentre si polemizzò, e molto, sull'innalzamento delle firme richieste nei comuni più grandi). Si evitò di chiedere le firme nei microcomuni perché lì, dove "tutti si conoscono" (Diego Novelli, La Rete), sarebbe stato inutile chiederle, ma anche perché in quella dimensione sostenere chi si candidava contro il sindaco uscente avrebbe potuto esporre i firmatari - comunque noti sia al personale politico sia agli impiegati comunali, chiamati spesso ad autenticare le sottoscrizioni - ai giudizi delle persone o a potenziali ritorsioni (magari camuffate con "difficoltà burocratiche"). Ciò ha reso sicuramente più facile agli autoctoni presentare liste, ma ha aperto la porta anche a chi voleva partecipare alla competizione da esterno, per tentare di far radicare una forza politica in territori in cui non era presente o per altri scopi meno nobili.
Vale la pena di notare che la norma citata, tuttora in vigore, interessa direttamente solo i comuni delle regioni a statuto ordinario. Non a caso, le regioni a statuto speciale e le province autonome, infatti, non sono di solito interessate dal fenomeno di liste esterne: di solito, infatti, le disposizioni in vigore richiedono un numero minimo di sottoscrizioni autenticate anche nei centri più piccoli. Per i comuni con meno di mille abitanti, infatti, servono almeno 5 firme in Valle d'Aosta (che peraltro voterà in autunno; fino al 2019, invece non servivano firme in quei luoghi, mentre la soglia fino al 2015 era fissata a 500) e almeno 20 per i comuni in provincia di Trento o di Bolzano (a meno che la lista non sia espressione di un partito che con lo stesso contrassegno ha ottenuto un seggio alle ultime elezioni della provincia autonoma o della Camera). Fanno - o meglio, farebbero - eccezione il Friuli - Venezia Giulia, la Sicilia e la Sardegna, perché anche in quelle regioni non è prevista la sottoscrizione delle liste nei comuni con meno di mille abitanti. Nel turno elettorale già svoltosi in aprile in Friuli - Venezia Giulia, però, non si è votato in nessun comune "sotto i mille" e lo stesso accadrà con riguardo alle elezioni siciliane del 25-26 maggio prossimi, quindi in questa tornata elettorale la questione non si pone; quanto alla Sardegna, dei sei comuni che voteranno l'8 e il 9 giugno prossimi (tra i quali Nuoro), ha meno di mille abitanti soltanto Goni, ma il termine per il deposito delle candidature scadrà il prossimo 10 maggio, dunque è presto per fare qualunque valutazione (anche se occorre dire che in passato non si sono registrati particolari episodi di liste extra muros).
L'altro ingrediente del cocktail normativo tossico va ricercato nell'art. 81, comma 3 della legge n. 121/1981 (Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza: si tratta della legge che, tra l'altro, smilitarizzò la polizia e aprì il corpo alle donne). In base a quella disposizione, "Gli appartenenti alle forze di polizia candidati ad elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento della accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale e possono svolgere attività politica e di propaganda, al di fuori dell'ambito dei rispettivi uffici e in abito civile". In effetti, il testo del disegno di legge inizialmente presentato dal primo governo Cossiga (a prima firma del ministro dell'interno Virginio Rognoni) si limitava a prevedere che "gli appartenenti alla Polizia di Stato candidati ad elezioni politiche o amministrative" fossero "posti in aspettativa per la durata della campagna elettorale", non potendo prestare servizio nella circoscrizione di candidatura per cinque anni (dalla data del voto o della cessazione del mandato). Durante la discussione in commissione Interni della Camera, però, il 5 marzo 1980 fu approvato un emendamento del governo con cui fu ridotto a tre anni il periodo di "embargo" e con cui si estese la disposizione a tutte le forze di Polizia e si previde l'aspettativa "speciale con assegni". In aula si discusse ampiamente sulle "norme di comportamento politico e sindacale" previste dal testo (in particolare sul divieto di iscrizione a partiti politici), ma non si registrarono sostanziali dibattiti sul tema che qui interessa, al punto che il testo è rimasto intatto finora. La disposizione era stata pensata per contemperare il diritto degli agenti di polizia a candidarsi con la particolarità della loro funzione, ma qualcosa con il tempo dev'essere andato storto.
I tentativi (falliti) di porre rimedio
Per capirlo, basta leggere la relazione di una proposta di legge presentata il 23 maggio 2014 dal deputato di Sel Gianni Melilla: partendo dalle carenze d'organico nella polizia penitenziaria (soprattutto dopo la revisione di spesa "imposta" dal governo Monti), si notava che "Nelle elezioni del 25 maggio [2014], si sono candidati in Abruzzo ben 124 agenti su circa 1.460 agenti della polizia penitenziaria effettivi, con un aggravio dei costi per lo Stato. La questione è preoccupante e occorre porvi rimedio. La crisi ha prodotto come risultato un'acutizzazione dei problemi che da tempo vengono affrontati dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia. Nel mese di maggio, oltre a doversi occupare delle emergenze parallele, cioè del sovraffollamento e delle carenze di organico nelle carceri, l'amministrazione penitenziaria ha dovuto fare i conti con un terzo problema: colmare i vuoti lasciati dagli agenti candidati alle elezioni, in aspettativa speciale con assegni. Un paradosso tutto italiano: 'stringere la cinghia da un lato e sbottonarsi dall'altro'. A farne le spese sono i colleghi degli agenti candidati, ai quali si è chiesto un ulteriore sforzo che si è aggiunto agli altri sacrifici già fatti per la cronica insufficienza di personale registrata nella maggior parte delle strutture detentive italiane. Gli agenti, dalla data di accettazione delle candidature dei colleghi e fino al giorno del voto, hanno dovuto affrontare turni massacranti per sostituire gli agenti candidati e in aspettativa obbligatoria [...]". La soluzione proposta da Melilla era intervenire sulla legge n. 121/1981, "adeguandola e avvicinandola alle attuali contingenze affinché risponda pienamente al periodo di emergenza in corso": l'aspettativa speciale con assegni sarebbe diventata "aspettativa non retribuita", fino al giorno delle elezioni. La proposta, però, assegnata alla commissione Interni, non è mai stata discussa in Parlamento.
Nella legislatura successivcasi ma - in cui Melilla non fu rieletto - nel 2020 si verificarono casi molto gravi, in particolare quello di Carbone in Basilicata (in cui si presentarono solo due liste esterne e il sindaco eletto si dimise immediatamente, con conseguente commissariamento) e quello di Posina (con il consiglio che non si è mai insediato in pieno e i candidati in una lista... a loro insaputa). In quel periodo Pierantonio Zanettin, allora deputato di Forza Italia, presentò una proposta di legge simile a quella di Melilla (il nuovo testo sostituiva l'aspettativa non retribuita a quella speciale con assegni): il testo della relazione lamentava l'emersione di "una vera e propria strumentalizzazione del disposto di cui all’articolo 81 della [...] legge n. 121/1981", con una norma che si è "prestata ad opportunismi e comportamenti scorretti, nonostante la disposizione in realtà miri a tutelare coloro che, legittimamente, vogliono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza". Per Zanettin era evidente che "troppe persone hanno approfittato della norma e delle casse dello Stato, solo per potersi vedere garantito un mese di retribuzione senza prestare servizio. È quindi necessario modificare la disposizione di cui all’articolo 81 della legge n. 121/1981, mantenendone saldi i presupposti e i princìpi di fondo e garantendo comunque il diritto degli agenti di poter svolgere liberamente la propria campagna elettorale, eliminando però il diritto alla retribuzione durante l'aspettativa". Zanettin interrogò la ministra dell'interno Luciana Lamorgese e il sottosegretario Achille Variati rispose che era disposto l'avvio di un procedimento disciplinare per gli eletti dimissionari di Carbone, per un comportamento "ritenuto deontologicamente non corretto, per avere gli stessi disatteso le aspettative riposte in loro innanzitutto dagli elettori, in virtù della nota appartenenza alla Polizia di Stato". A dispetto di tutto questo, l'esame del disegno di legge non iniziò mai; Zanettin lo ha ripresentato in questa legislatura (è stato rieletto al Senato), ma formalmente il testo non risulta ancora assegnato.
Il tentativo di un esponente della maggioranza di governo di neutralizzare uno dei due ingredienti del cocktail normativo tossico, dunque, non è finora andato a buon fine, ed è noto che le proposte di legge iniziano a camminare, continuano a farlo e arrivano in porto soprattutto se c'è l'interesse delle forze di maggioranza. Quanto all'altro ingrediente, chi legge questo sito sa bene che nella scorsa legislatura era arrivato a buon punto un testo, frutto soprattutto dell'impegno del senatore leghista Luigi Augussori, che, oltre a prevedere l'abbassamento stabile del quorum di validità delle elezioni nei comuni fino a 15mila abitanti qualora fosse stata ammessa una sola lista, avrebbe reintrodotto un numero minimo di sottoscrizioni anche nei comuni più piccoli (tra 15 e 30 firme nei comuni tra 751 e 1000 abitanti; tra 10 e 20 firme nei comuni tra 501 e 750 abitanti; tra 5 e 10 sottoscrizioni nei comuni fino a 500 abitanti). In Senato, anche grazie all'impegno del dem Dario Parrini, si arrivò all'approvazione, ma alla Camera tutto si fermò. In questa legislatura l'iter è ripartito, il Senato ha discusso e approvato il testo, ma alla Camera il percorso si è fermato dopo l'approvazione in commissione, un anno fa. Lo scorso 16 aprile, dichiarando il suo voto favorevole alla conversione del "decreto elezioni 2025", la senatrice leghista Daisy Pirovano (che si è fatta carico di portare avanti il disegno di legge ex Augussori), ha lamentato come il testo volto a stabilizzare la norma per i comuni monolista e a reintrodurre le firme "sotto i mille" "per evitare liste farlocche" fosse "fermo da due anni alla Camera
dei deputati", mancando "solo un voto che richiederebbe mezza giornata di tempo": per lei si trattava di "una di quelle cose, di cui parlano tanto anche i colleghi
dell'opposizione [...] che dispiacciono a un parlamentare", così ha voluto rivolgere "una preghiera al Governo
e ai colleghi della Camera affinché si possa risolvere questa
incresciosa situazione". A fronte di dichiarazioni di impegno dei partiti di maggioranza a ottenere presto il superamento del sistema elettorale nei comuni superiori con la vittoria al primo turno col 40%, non risultano per ora segni di altrettanto interesse per le elezioni "sotto i mille".
Anche quest'anno, dunque, chi ha voluto presentare liste nei microcomuni ha potuto farlo senza la fatica di raccogliere firme sul territorio, arrivando semplicemente al momento del deposito dei documenti nelle rispettive segreterie comunali. Allo stesso modo, gli agenti delle forze di polizia che desideravano candidarsi hanno potuto farlo, godendo di 30 giorni di aspettativa retribuita, diversamente da qualunque altro pubblico dipendente. Già in passato non poche liste sembrano essere state presentate - senza l'incomodo della raccolta firme - essenzialmente con quello scopo, unendo più persone accomunate da quella caratteristica; erano però vari i comuni su cui quelle liste si "spalmavano" (con simboli simili, poco appariscenti), così in ogni località ne veniva presentata una, magari due o tre, anche se capitava che si salisse si numero dando nell'occhio. Questa volta invece i comuni "sotto i mille" al voto erano pochissimi: chi avesse voluto candidarsi comunque, magari ripetendo l'esperienza degli anni precedenti (o aggiungendosi a chi già l'aveva fatta), dove avrebbe potuto concorrere? Ovviamente solo in quei 12 comuni, dunque era inevitabile concentrarsi lì e presentare molte più liste, al punto da rendere impossibile passare inosservati (ancor più di quanto si pensava sarebbe accaduto dopo il caso di Carbone, ma le cose sono andate diversamente...). Così sembra di poter spiegare la presenza di molte - non tutte, a onor del vero - delle liste in corsa in 9 microcomuni su 12. Gli strumenti essenziali per il viaggio, dunque, ora ci sono tutti e siamo pronti a partire.
(1 - continua)